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ONE HOUR PHOTO
(ONE HOUR PHOTO)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 8 aprile 2003
 
di Mark Romanek, con Robin Williams, Connie Nielsen, Michael Vartan, Gary Cole (Stati Uniti, 2002)
 
Premuroso e dolce, Sy Parrish (un Robin Williams libero, infine, dalle smorfie isteriche: e quindi semplicemente grande) non è soltanto il puntiglioso responsabile del reparto di stampa fotografica di uno di quei terrificanti supermercati di periferia. Qualcosa non quadra: ed il regista Mark Romanek (un esordio, in pratica, nel lungometraggio di finzione; dopo una notevole carriera nei video-clip) non ne fa mistero, mostrandocelo nella prima sequenza mentre è interrogato dalla polizia.

Non è nemmeno innamorato, il nostro eroe triste, come potrebbe apparire: della più desiderabile delle sue clienti, l'invero affascinante, luminosa Connie Nielsen. Perché ONE HOUR PHOTO non è soltanto uno psico-suspense avviato su una serie di false piste. Ma un film sulle apparenze. Quelle (e come potrebbe non esserlo un film sull'universo della fotografia?) di una realtà che dovrebbe essere oggettiva per eccellenza: a somiglianza delle immagini che compaiono dal bagno di sviluppo sulla carta fotografica impressionata. Quelle di una commedia umana, che gli individui, i loro atteggiamenti, gli oggetti dei quali si circondano, gli ambienti nei quali vivono tentano di interpretare ad uso e consumo di chi li osserva.

Dietro l'apparente serenità, l'accattivante mansuetudine di Sy si nasconde evidentemente la sua completa solitudine; immersa nei labirinti asettici del supermercato, nelle mense con i resti del fast food, nel nitore puntiglioso del laboratorio fotografico, nelle geometrie disincarnate del suo appartamento di scapolo. Un universo (sempre più mentale, sottolineato dalle riflessioni off del protagonista stesso) di un igienismo morale spartano. Con un buco nero, da soprassalto: la parete della sua abitazione, interamente ricoperta da una scelta delle istantanee sviluppate per i clienti.

Sy è allora semplicemente uno psicopatico che cerca d'impossessarsi delle immagini appartenenti alla sfera privata del nostro prossimo? Del loro calore umano, della loro armonia esistenziale che tanto gli fa difetto? La regia di Romanek è più che abile a lasciarci in un dubbio altrimenti utile di quello dettato dalle regole scontate del genere. In un ambiente altrettanto asciugato della segregata affettività del protagonista, il rigore espressivo degli spazi, il vuoto che sembra crearsi attorno agli oggetti, le dominanti glauche, i lunghi silenzi sono quelli di un'esigenza spirituale che non può che sfociare in violenza. In inglese, snapshot significa istantanea: ma è egualmente un termine di caccia. E il teleobiettivo diventa allora un'arma, la zoomata una raffica potenziale, l'inquadratura la proiezione di una rivalsa morale.

Fino ad allora impeccabile, ONE HOUR PHOTO esita proprio in quel passaggio dalla riflessione su di una condizione alla messa in opera di quella rivalsa. In un finale psicologicamente anche poco credibile, il film finisce per mordersi la coda: da morale si fa moralista, da analitico, convenzionale. Lucido, intransigente e pure commosso nel denunciare l'illusione ipocrita di quei sorrisi che dilagano da ognuna delle fotografie di cui si è nutrito Sy, il film (comunque ignominiosamente dimenticato dalla giuria dell'ultimo festival di Locarno) diluisce parte della sua energia nel compromesso. In quel puritanesimo dal quale il cinema americano anche più intelligente fatica maledettamente a liberarsi.


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